Partecipazione virtuale al processo penale: strumento utile per evitare il contagio o nocumento del diritto di difesa?

Nota a Cass.Pen., Sez. 4, 4923/2020

Presidente: Ciampi F. M.; Relatore: Ferranti D.

Data Udienza: 21/01/2020

In “tempi non sospetti”, prima della diffusione del Coronavirus in Italia, chiamata a pronunciarsi su un’eccezione avente ad oggetto l’istituto della videoconferenza, la Cassazione prende nuovamente posizione sul tema della partecipazione a distanza al processo penale, con una motivazione che sembra allontanarsi dalle interpretazioni della dottrina maggioritaria in materia e che pone le basi per un generalizzato utilizzo di questo strumento nel corso dell’emergenza sanitaria, se non anche successivamente.

 

Quando, all’inizio di marzo, l’emergenza generata dal Covid-19 ha toccato le aule dei Tribunali, anche il normale svolgimento del processo penale è stato travolto dalle sue conseguenze. I numerosi procedimenti pendenti di fronte alle corti giudiziarie si sono trovati di fronte ad un bivio: il rinvio – a una data anche di molto successiva – ovvero la partecipazione dell’imputato all’udienza attraverso un collegamento audiovisivo.

Strumenti come videoconferenza e telesame erano già disciplinati all’interno del nostro ordinamento attraverso le disposizioni di cui agli articoli 146-bis disp. att. c.p.p. e 147-bis disp. att. c.p.p. Nati negli anni Novanta come strumenti di sussidio nel perseguimento di reati aventi ad oggetto la criminalità organizzata, consentivano di collegare da remoto all’aula del processo sia gli imputati più “pericolosi”[1], onde evitare che questi riallacciassero i contatti con le organizzazioni criminali di appartenenza, sia i collaboratori di giustizia, i quali potevano in questo modo essere esaminati senza essere esposti a rischi per la propria incolumità.

Concentriamoci sulla partecipazione a distanza. Nel tempo, e soprattutto attraverso la riforma della l. 103/2017, nota come riforma Orlando, i presupposti applicativi di questo istituto sono stati fortemente estesi: la videoconferenza, in particolare, diviene la normale forma di partecipazione dell’imputato il quale si trovi in stato di detenzione per (gravi) reati di cui all’art. 51 co. 3-bis ovvero 407 co. 2, lett. a) n. 4) c.p.p.; allo stesso tempo, viene concessa al giudice la facoltà di disporre, sulla base della sua discrezionalità, la partecipazione a distanza di tutti i soggetti detenuti qualora sussistano ragioni di sicurezza, qualora il dibattimento sia di particolare complessità e sia necessario evitare ritardi nel suo svolgimento, ovvero quando si deve assumere la testimonianza di persona a qualunque titolo in stato di detenzione presso un istituto penitenziario[2]. A prescindere quindi dal tipo di reato commesso, il solo fatto di essere detenuto potrebbe ben essere sufficiente a giustificare l’assenza fisica del soggetto dall’aula, laddove ragioni che potremmo definire, di fatto, di economia processuale, lo richiedano.

Ad oggi l’emergenza sanitaria, la necessità di evitare assembramenti e, più in generale, il sovraffollamento dei luoghi chiusi, hanno riaperto il dibattito sulla digitalizzazione del processo penale ed alimentato le voci di tutti quei giuristi che ritengono il contraddittorio fisico delle parti in aula una modalità processuale “antica”, che ben potrebbe essere superata attraverso nuovi modelli di processo telematico.

La domanda che dobbiamo porci, non solo come giuristi ma come operatori del diritto, a questo punto è: la presenza virtuale dell’imputato nell’aula processuale è equivalente alla presenza fisica? E se no, su quali diritti incide?

Nella pronuncia che ci si propone di analizzare, il tema della partecipazione a distanza non aveva una rilevanza centrale; in particolare, la Cassazione rigettava il punto col quale la difesa riproponeva un’eccezione già formulata nel corso del procedimento di riesame, incentrata sull’omessa notificazione all’indagato del decreto che aveva disposto la sua partecipazione a distanza all’udienza camerale fissata per la trattazione del riesame e, in particolare, sul mancato rispetto del termine di 3 giorni giorni stabilito dall’art. 146-bis disp. att. c.p.p. in relazione all’art. 309 co. 8 c.p.p. Il Tribunale, constatata l’effettiva omessa notifica, aveva differito l’udienza. Per la successiva udienza, risulta che la notifica delle speciali modalità di partecipazione del detenuto al procedimento camerale almeno 2 giorni prima della stessa, e che la difesa fosse poi presente a detta udienza.

La questione su cui è stata chiamata a pronunciarsi la Cassazione,dunque, era la seguente, di carattere squisitamente procedurale: se, in presenza di un detenuto sottoposto a regime speciale ex art. 41 bis., che abbia richiesto di presenziare all’udienza camerale di riesame, il provvedimento che dispone la partecipazione a distanza del detenuto debba essere notificato al suo difensore nel rispetto del termine di tre giorni liberi dalla data di fissazione dell’udienza camerale, ovvero se quel termine, desumibile dall’art. 309 co. 8 c.p.p., non si applichi alla particolare procedura della videoconferenza.

La Corte si pronuncia in senso negativo, facendo leva sulla differenza ontologica dei due provvedimenti: l’uno volto ad informare la difesa del fatto che avverrà un procedimento di riesame, l’altro del fatto che si procederà attraverso la modalità a distanza. Tale provvedimento, sottolinea la Corte, «non è strettamente pertinente ed indispensabile per consentire la presenza in udienza e la preparazione ad affrontare il confronto dialettico con le altre parti ed il giudice in quella sede».

Secondo la Cassazione, inoltre, il comma quinto dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p. (n.d.a. non quarto, come si legge in sentenza), «grazie all’introduzione di moderne tecnologie, sancisce la totale equiparazione del luogo fisico ove avviene la videoconferenza con l’udienza dove si svolge il procedimento. Dal tenore delle disposizioni qui riportate si evince che l’imputato o l’indagato che presenzia all’udienza in videoconferenza non è in alcun modo privato, ne’ vulnerato nel suo diritto di ricevere assistenza tecnica, nel caso che il suo difensore sia presente in udienza e non nel luogo ove siede il detenuto. […] Nel caso di udienza a distanza, la necessità del secondo avviso appare dettata esclusivamente al fine di consentire concretamente al difensore di operare la scelta se raggiungere o meno il luogo ove è ristretto il suo assistito. È, pertanto, sufficiente, anche in considerazione del carattere di urgenza che connota la procedura incidentale del riesame, che sia data nel concreto al difensore la possibilità, ove lo voglia, di raggiungere il luogo».

Tornando al punto centrale della nostra indagine, quindi, secondo la Cassazione, sarebbe lo stesso legislatore, al quinto comma dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p., ad assimilare i concetti di partecipazione virtuale e reale, la cui differenza ontologica sarebbe oggi annullata dai moderni dispositivi tecnologici a disposizione delle corti giudiziarie. Questa interpretazione della giurisprudenza appare, a parere di chi scrive, tanto censurabile quanto pericolosa.

Il disposto per cui «Il luogo dove l’imputato si collega in audiovisione è equiparato all’aula di udienza» deve intendersi in senso più procedurale che sostanziale: l’imputato il quale partecipi a distanza non è assente, può intervenire, tant’è vero che  l’ausiliario del giudice, presente nella postazione remota, è tenuto a compiere tutti gli adempimenti che sono indicati al comma sesto del medesimo articolo proprio per garantire il corretto svolgimento della videoconferenza. La postazione remota è, nell’iter processuale, equiparata all’aula del tribunale e ne costituisce un “prolungamento”.

Ma ciò non significa che la partecipazione virtuale dell’imputato sia uguale alla partecipazione reale. La visione della scena processuale attraverso uno schermo determinerà sempre un distaccamento dalla realtà, al punto da trasformare l’aula in un “ambiente asettico”; che il processo possa realizzarsi indistintamente in modo virtuale o fisico non è altro che una fictio iuris[3]. La partecipazione attraverso un collegamento audiovisivo incide negativamente sulle garanzie dell’imputato, sia per quanto concerne la consapevole comprensione delle dinamiche dibattimentali, sia per quanto riguarda il confronto faccia a faccia del medesimo con i testimoni[4], attenuando così in modo significativo il diritto di autodifesa dell’imputato[5].

Lo stesso diritto di difesa, per quanto realizzato nella sua sostanza, ne risulta inevitabilmente compromesso. Alcuni, anche richiamandosi alla giurisprudenza della Corte EDU[6], potranno obiettare che il contraddittorio e il diritto di difesa sono sufficientemente garantiti dalla presenza in aula del difensore dell’imputato. Come sottolinea la stessa Cassazione nella pronuncia in commento, anche sulla base del quarto comma dell’art. 146-bis «E’ sempre consentito al difensore o a un suo sostituto di essere presente nel luogo dove si trova l’imputato. Il difensore o il suo sostituto presenti nell’aula di udienza e l’imputato possono consultarsi riservatamente, per mezzo di strumenti tecnici idonei». Attraverso, poi, il comma 4-bis è consentito, su istanza, «anche alle altre parti e ai loro difensori di intervenire a distanza assumendosi, però, l’onere dei costi di collegamento».

Questa possibilità, tuttavia, si traduce in una decisione strategica non di poco conto per il difensore: se sceglie di restare in aula, allora la comunicazione tra lui e il suo assistito sarà sempre e necessariamente mediata da un operatore tecnico, e non immediata come sarebbe se questi si trovasse in aula; meccanismo che rischia di distogliere l’attenzione del difensore dal vero e proprio dibattimento. L’ipotesi diventa ancora più complessa e caotica quando i collegamenti sono plurimi. A risultare compromessa è l’immediatezza che caratterizza il procedimento. Allo stesso modo, se scegliesse di affiancare il proprio assistito e partecipare a sua volta da remoto, rischierebbe di compromettere ancor di più l’incisività del proprio intervento. Infine, se il difensore scegliesse di presenziare in udienza e al contempo affiancare all’imputato, nella postazione remota, un suo sostituto, da un lato si porrebbero comunque i problemi di immediatezza della comunicazione di cui si è appena detto, e dall’altro i costi della duplice difesa dovrebbero poi essere sostenuti dall’imputato, il quale non necessariamente potrebbe essere in grado di sostenere economicamente questa spesa.

In conclusione, dire che «la necessità del secondo avviso appare dettata esclusivamente al fine di consentire concretamente al difensore di operare la scelta se raggiungere o meno il luogo ove è ristretto il suo assistito» è di per sé una banalizzazione del ruolo dell’avvocato e delle problematiche che una “difesa a distanza” comporta.

Allo stesso tempo, ritenere che con la formula «Il luogo dove l’imputato si collega in audiovisione è equiparato all’aula di udienza» il legislatore riconosca la capacità del collegamento audiovisivo di ricostruire la scena processuale in modo equiparabile è quanto mai pericoloso in una prospettiva de iure condendo della disciplina della partecipazione a distanza ai tempi del Covid-19.

La videoconferenza, per quanto uno strumento utile in un periodo storico caratterizzato dalla necessità di distanziare le persone tra loro il più possibile, non può diventare una prassi. Sul punto la dottrina si pronuncia in senso quasi unanime: la videoconferenza dovrebbe costituire una extrema ratio, attuabile laddove modalità meno lesive del contraddittorio e del diritto di difesa siano applicabili.

[1] O così definiti, sulla base di una presunzione legata alla gravità del reato da loro commesso.

[2] Preme sottolineare come, attraverso questa previsione,il legislatore disciplini, di fatto, un caso di esame a distanza del detenuto, creando una disarmonia con la disciplina di cui all’art. 147-bis disp. att. c.p.p. che è stata fortemente criticata in dottrina.

[3] cfr. S. Signorato, L’ampliamento dei casi di partecipazione a distanza, in Speciale commento l. 103/2017, in LP, 2017, p. 12.

[4] D. CURTOTTI NAPPI, Le modifiche alla disciplina della partecipazione al dibattimento a distanza, AA.VV. G. BACCARI, Le recenti riforma in materia penale, Padova, 2017, p. 12.

[5] S. LORUSSO, Dibattimento a distanza vs. “autodifesa”?, in www.penalecontemporaneo.it, 17 maggio 2017, n.1, p. 217

[6] si veda la più famosa in materia, Corte EDU, Viola c. Italia, 5 ottobre 2006 in cui la Corte individua come legittima la (allora vigente) disciplina della partecipazione a distanza rispetto l’art. 6 CEDU e il principio dell’equo processo , in quanto il collegamento audiovisivo in quanto disposto con fini compatibili rispetto quelli della Convenzione, quali la ragionevole durata del processo e l’ordine pubblico.

 

Dott. Ludovica Barbieri