Amministrazione di sostegno e consenso informato. Principi

 Nell’Ordinanza qui allegata il Giudice Tutelare di Reggio Emilia, competente funzionalmente e territorialmente in relazione ad istanza per istituzione di amministratore di sostegno – procedura regolata dagli artt. 404 e segg. cod. civ. e 712 e segg. cod. proc. civ. – compie una panoramica dei principi e presupposti sussistendo i quali è possibile attribuire all’amministratore di sostegno il potere di esprimere il consenso ai trattamenti sanitari in nome e per conto del beneficiario impossibilitato a provvedere autonomamente in tal senso per infermità psichica o fisica.

Tale possibilità può essere deferita solo previa ricostruzione della presumibile volontà del beneficiario in relazione al tipo di terapie proposte.

Principio affermato dalla Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 21748 del 2007) in tema di “consenso informato”, che sta alla base del rapporto medico – paziente e rappresenta “norma di legittimazione del trattamento sanitario” (altrimenti illecito, difettando il consenso).

Afferma infatti la Suprema Corte la correlazione tra il “consenso informato” con “la facoltà del paziente non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche di quella terminale”; con la precisazione che “il rifiuto delle terapie medico – chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”, per cui “in presenza di una determinazione autentica e genuina” dell’interessato che rifiuti la cura, il medico “non può che fermarsi, ancorchè l’omissione dell’intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte” (Cfr.  Corte di Cassazione, Sezione 1 penale n. 26646 che ha affermato: “In tema di attività medico-chirurgica (in mancanza di attuazione della delega di cui all’art. 3, legge 28 marzo 2001, n 145, con la quale è stata ratificata la convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina), deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato a effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorché l’omissione dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte; in tale ultima ipotesi, qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata ma non – nel caso in cui il trattamento comporti lesioni chirurgiche e il paziente muoia – – il diverso e più grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali all’intervento terapeutico, possano rientrare nella previsione di cui all’art. 582, c.p.”).

Il Giudice Tutelare richiama quindi i principi di legittimità affermati nella sentenza della Suprema Corte n. 21748/2007 (definita il più completo e recente arresto sul tema) per cui, in tema di attività medica e sanitaria, il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore un potere “incondizionato” di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del “best interest”, deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.

Alla luce di tali principi deve dunque ritenersi che al tutore/amministratore di sostegno prima, ed al giudice poi, spetti il delicato compito, nell’ipotesi di soggetto incapace di esprimere autonomamente le proprie determinazioni, di procedere alla ricostruzione della volontà del malato rispetto alle scelte di cura.

Si rinvia, nel resto, all’allegata Ordinanza

LMC

 Ordinanza Giudice Tutelare di Reggio Emilia